Quando, nel parlare di tutti i giorni, si parla di “apparecchio fisso”, ci si riferisce al classico sistema con le “piastrine”, o “stelline” – i paragoni sono vari e sempre fantasiosi – (fig.1) che si vede spesso nelle bocche di ragazze e ragazzi in età scolare.

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fig.1

Al giorno d’oggi, fortunatamente, l’ortodonzia non rappresenta più quell’elemento di potenziale disagio sociale che poteva incarnare negli anni passati, sia per gli ovvi progressi in ambito estetico nel disegno delle apparecchiature, sia per l’ormai amplissima diffusione dei trattamenti ortodontici tra la popolazione, giovanile e non.

Negli Stati Uniti è già da tempo in uso valorizzare la propria ortodonzia fissa (ad esempio mediante l’impiego di legature e catenelle elastiche colorate o addirittura fluorescenti) piuttosto che cercare di nasconderla, a conferma dei cambiamenti che si sono avuti negli anni riguardo l’accettazione sociale di tali apparecchiature. Progressi in tal senso sono già in atto anche da noi, facilitati dalla diffusione delle terapie fisse tra i giovani e dall’evoluzione, sia funzionale che estetica, dei materiali utilizzati.

Le apparecchiature fisse tradizionali sono in acciaio inossidabile e sono tuttora quelle più utilizzate nella pratica clinica. Esistono anche attacchi in ceramica e in resina i quali, se pur presentano vantaggi da un punto di vista estetico (anche questi molto relativi, in quanto soggetti nel tempo a variazioni di colore che possono peggiorarne l’impatto visivo), mostrano prestazioni cliniche inferiori agli attacchi in acciaio, oltre ad essere più costosi. In fig.1 sono mostrate le due tipologie di attacchi.

Come funziona

I componenti principali di un apparecchio fisso tipico sono: le bande per molari e premolari, i bracket, l’arco. A questi si aggiungono ausiliari come le molle, i moduli elastici, ecc.

Al giorno d’oggi esistono numerose tecniche ortodontiche, tutte assolutamente valide da un punto di vista clinico. Differenze a parte, ciò che le accomuna è il fatto di derivare tutte dalla medesima filosofia di partenza, quella straight–wire (“a filo dritto”), che prevede l’utilizzo di archi privi di pieghe (a parte la curvatura naturale della bocca).

In passato occorreva modellare l’arco in modo tale che ogni dente avesse la propria precisa collocazione tridimensionale all’interno del cavo orale, con notevole dispendio di tempo ed energie da parte dell’ortodontista. Ciò si rendeva necessario in quanto i bracket erano sostanzialmente identici per tutti gli elementi, quindi erano le modifiche sull’arco a generare le forze necessarie all’allineamento.

Con la tecnica straight–wire, invece, si è introdotta l’importante novità di inserire le informazioni necessarie all’allineamento direttamente all’interno degli slot (le corsie nelle quali è alloggiato l’arco) dei bracket: non è quindi più necessario modellare l’arco come si faceva una volta, e anche se nella pratica clinica la necessità di effettuare pieghe sul filo permane, il numero di queste è stato drasticamente ridotto.

Per prima cosa si posizionano le bande sui molari permanenti (in genere i primi), applicandole con cementi auto– o fotopolimerizzanti, quindi si procede con l’applicazione dei bracket sugli altri denti ed eventualmente delle bande sui premolari (che su questi elementi possono sostituire i bracket).

I bracket devono essere incollati sulla superficie vestibolare (quella esterna) di tutti i denti, ad esclusione dei molari (fa eccezione la tecnica ortodontica linguale che prevede l’applicazione dei bracket sulla superficie linguale dei denti). Esistono tuttavia dei tubi per molari da incollare direttamente sulla superficie di questi denti in sostituzione delle bande.

La manovra di bonding, ovvero di adesione dei bracket ai denti, avviene dapprima preparando lo smalto degli elementi con sostanze che ne aumentino la ritenzione, poi applicando una resina adesiva liquida sulle superfici così preparate ed infine applicando i bracket, sulla cui base è stata posta una piccola quantità di resina composita più densa (la sostanza utilizzata anche per le ricostruzioni dentali), sui denti. Ciò che avviene è un legame chimico–meccanico fra la resina adesiva interdigitata nelle micro–porosità dello smalto e la resina composita, che a sua volta aderisce al bracket legandosi alle micro–anfrattuosità presenti sulla sua base, sulla quale pure si applica un sottile strato di resina adesiva. Il legame chimico fra le due componenti in resina può avvenire automaticamente nel momento in cui le due sostanze si uniscono (autopolimerizzazione) oppure può richiedere l’attivazione mediante lampada UV (fotopolimerizzazione).

Una volta posizionati i bracket (ad altezze specifiche per ciascun elemento dentale) si inserisce l’arco, opportunamente modellato, collocandolo all’interno degli slot presenti sui bracket. Nelle fasi iniziali del trattamento, quando i denti sono disallineati, l’arco non entrerà passivamente negli alloggi ma dovrà essere forzato ad entrare: assumerà quindi delle curvature. A questo punto l’ortodontista legherà saldamente l’arco a ciascun bracket, utilizzando delle legature elastiche o metalliche, per evitare che esso possa uscire dagli slot o comunque sfilarsi.

L’arco così conformato tenderà, in base alle caratteristiche fisiche e biomeccaniche del materiale che lo compone (acciaio mono– o multifilamento, nichel–titanio, beta–titanio, ecc.), alla sua sezione (rotonda o rettangolare) e al suo spessore, ad esplicare una forza più o meno elevata che gli faccia assumere la forma che aveva prima di essere forzato nei bracket, trascinando con sè in questo movimento i denti a cui è stato solidarizzato (legato).

Normalmente si impiegano dapprima archi più sottili e più elastici per livellare le altezze dentali per poi passare ad archi sempre più spessi e rigidi che permettano un miglior controllo degli spostamenti e delle inclinazioni.